sabato 9 dicembre 2006

Ipertesto sia!

Vista la labile separazione tra categorie e luoghi ad esse deputati che vigeil Weblog di Sociologica in questa costellazione di blog ed altri ambiti di discussione, ecco quello che avrebbe potuto essere un commento all'ultimo post di GiaNluC sul blog di Sociologica. A parte i ringraziamenti per l'indefesso - anche se a volte frenetico e spiazzante *grin* - lavoro di aggiornamento tecnologico del sito, devo dire che la scelta del clip con cui inaugurare la possibilità di postare dei video è geniale. Invito pertanto tutti i fruitori più o meno entusiasti di questi nodi anche-didattici a dargli un occhio (è il post di oggi, 9 dicembre), ragionando non solo sul problema dell'immagine e della sua normatività, ma anche su quello - ancora più inquietante - della realtà e della sua sostanza...

giovedì 7 dicembre 2006

Dr. House o la medicina come arte

Hugh Laurie as doctor Greg HouseWell, well, well, è un po' che avevo in mente di dedicare un post al fenomeno serial qui accanto e questo insolito affollarsi di commenti qui su Ciottoli mi ha spinto all'azione, e alla collocazione, anche Al di là dei pregi e difetti della produzione seriale - la ripetitività del modulo, il senso di familiarità e partecipazione che si instaura col cast, la ritualità dell'appuntamento settimanale (quando li si segua in TV) - House m.d. gode a mio parere di due assi nella manica, uno senz'altro intenzionale, l'altro forse più inconsapevole. Il primo sta nell'abilità notevolissima - quasi geniale - del team di scrittori di ritrarre il personaggio chiave e di confezionargli dialoghi tagliati su misura, alla quale si correla la bravura dell'interprete Hugh Laurie (invito gli anglofoni a leggere le sue frasi memorabili riportate su Imdb *grin*). Una di queste mi porge il destro per spostarmi al secondo atout della serie. Cito: "Sono cresciuto con una certa antipatia per le cose antiscientifiche, così l'attuale innamoramento per tutto quel che è orientale mi snerva un tantino. Se starnutisco sul set, subito 40 persone mi porgono dell'echinacea: piuttosto che prenderla mangerei una matita. Forse è per questo che ho cominciato con la boxe: è la mia risposta a gente in pigiama bianco che cerca di sentirsi il chi"...
Da una parte ciò depone a favore della mia equanimità, visto che pratico da un po' il tai chi dall'altra mostra quanto l'aspetto che metterò ora inTao evidenza sia probabilmente fuori dalla percezione dei responsabili della serie. Di fatto l'intero impianto di House m.d. è un atto di accusa alle pretese totalizzanti della medicina contemporanea, alla sua rinuncia allo status di arte a favore di un abbraccio incondizionato alla dimensione scientifica, intesa come capacità tendenzialmente assoluta di previsione e cura (e oggi di prevenzione, con i correlati problemi di prescrittività sociale che le sue teorie portano con sé. Basta pensare alle crociate contro il fumo o in favore di uno stile di vita "sano"...). Greg House, sebbene forte di un sapere scientifico ineccepibile e decisamente al di sopra della media, usa di questo sapere in modi assolutamente eterodossi e ne mette di continuo in luce le fallacie e l'inaffidabilità, quando separato dal genio individuale. Si lamenta spesso delle distorsioni e particolari cecità che causa il ricorso massiccio alle analisi computerizzate, che impediscono di apprezzare qualità dei campioni che un medico premoderno avrebbe valutato senza fallo. Arriva addirittura a replicare antichi metodi che oggi suscitano orrore, come quando assaggia del vomito per dedurne gli elementi costitutivi. Salta a piedi pari protocolli e procedureI visitatori burocratizzate, sottolineando ogni volta l'unicità del malato che si trova sotto le grinfie, unicità cinicamente disgiunta da giudizi di valore, assunta semplicemente come dato di fatto. In questo suo muoversi originale sullo sfondo di un ospedale tipico, risalta come un extraterrestre tra le schiere di adoratori del dato, o forse come uno dei "visitatori" che una pellicola di qualche tempo fa aveva ritratto con esiti assai comici.
Di fatto Greg House è un bell'esempio di quel sapere inclusivo di cui si parla piuttosto spesso, chiamandolo "pensiero complesso" o "logica et/et" o qualcuna delle tante altre definizioni disponibili, un sapere che si rende conto che i confini tra scienza e pseudoscienza sono nella migliore delle ipotesi fuzzy - come scriveva svariati anni fa un antesignano di simili - sballati, direbbero i più  - punti di vista, Charles Fort. Autore, tra le altre cose, del Libro dei dannati (pubblicato nel 1919 e ristampato, in ultimo, nel 1999, ohibò!), la cui tecnica di redazione ricorda pericolosamente il modo in cui il serial del nostro misantropo dottore è nato. Racconta infatti Imdb che lo show sia stato ispirato da The Diagnosis Column del New York Times Magazine, dove si descrivono casi medici inusuali; Fort è partito dalla stessa considerazione, concentrandosi però sui casi definiti inspiegabili dalle riviste scientifiche dell'epoca, relegati di norma in trafiletti schiaffati nelle ultime pagine: ne ha raccolti a centinaia, che sono poi diventati i "dannati" del libro omonimo. Tipo interessante, ha lasciato alcune memorabilia che vale la pena citare: "Non posso concepire niente, in religione, scienza o filosofia, che sia qualcosa in più della cosa giusta da indossare per un momento". Se questa è già piuttosto intrigante, ricordando molto storie Zen su Buddha che darebbero sui nervi a Hugh Laurie , quest'altra ci riporta dritti dritti in un contesto più noto, che risuona di Simmel e Jung: "Ma il mio più vivo interesse non è tanto nelle cose, quanto nella relazione tra le cose. Ho speso molto tempo pensando alle presunte pseudo-relazioni che vengono chiamata coincidenze. Che accadrebbe se alcune di esse non lo fossero?"
Direi che per essere un "semplice" serial di spunti ne offre parecchi, no?

venerdì 24 novembre 2006

Bulli e pupe

Sto evidentemente invecchiando. Lo intuisco da segni diversi. Uno, ad esempio, è lo scarso entusiasmo con cui lavoro a questo blog - al qualedon Juan Matus d'altro canto non concorre il vivace feedback che ne origina *sigh* - come se la "follia controllata" di cui parlava il don Juan di Castaneda cominciasse a farmi difetto nella sua pars construens, quella in cui si agisce "come se" le cose di questo mondo avessero una qualche importanza. Un altro segno è il decrescere della soglia di tolleranza della stupidità, unito alla sconsolata constatazione che la prima legge di Cipolla ha il limite tendente all'infinito, come già suggeriva d'altronde Einstein. E' vero, sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione. Paretianamente, si tende a trasformare questa insopportabile verità in qualcosa all'apparenza peggiore, ma capace per paradosso di riscattare la pretesa all'intelligenza della specie. Si parla allora di interessi, di egoismo, di ipocrisia, qualcosa insomma che permetta di salvare la faccia della razionalità, se non quella dell'etica di cui tanto non importa più un tubo a nessuno... L'età sembra suggerire che si tratta di pie illusioni, che il diavolo - se esiste - ha già vinto sulla Terra per manifesta inferiorità dell'avversario. E anche sul diavolo, in ultima analisi, si addensano foschi dubbi: a che serve se non a salvare la fola estrema che si debba pagare per la propria stupidità (in chiave valoriale, i propri peccati)? Un giudizio e una pena salvano anch'essi la faccia del genere umano, crudele, spietato, pronto a sacrificare gli altri, ma per calcolo, per Katrina a New Orleansuna qualche forma corrotta di intelligenza. Il problema è che la stupidità si annida nell'argomento stesso: quale sarebbe la forma di intelligenza che, in vista di un guadagno immediato, sacrifica la possibilità stessa di goderne devastando l'ambiente in cui questo godimento dovrebbe aver luogo? Avrei detto che Verga avesse già dimostrato in modo inequivocabile che "la roba" non si può portare all'altro mondo, inferno o paradiso che sia. Si è evidentemente pensato di portare qui l'altro mondo, dimentichi di diritti umani universali e generazioni future...
E già che parliamo di generazioni future, veniamo all'oggetto iniziale di questo post, dedicato all'emergenza sociale che oggi tiene banco, il bullismo e le sue ricadute multimediali. In prima battuta, non ho potuto evitare un brivido nervoso per l'ipocrisia diffusa con cui il tema viene affrontato un po' ovunque, nelle pillole di saggezza e nei pareri degli esperti. E poi mi sono autosnervato per la condiscendenza ipocrita con cui l'uso di questa categoria tratta la società e la cultura che esprime. Ipocrisia vorrebbe dire che qualcuno ha ben chiare le ragioni dell'escalation della violenza minorile e per suoi oscuri motivi le dissimula dietro letture da esse difformi, fatte di luoghi comuni e ciance assortite. Magari! L'età che avanza suggerisce che dietro l'idea che i cellulari ne siano in parte responsabili non ci sia altro che atrofia cerebrale, che lo stupore con cui si accolgono imprese e relativi filmati sia genuino. Dopo che da decenni si martella ovunque l'equazione "visibilità mediatica=esistenza" e la gemella
"visibilità mediatica=successo" ci si stupisce che essa sia perseguita ad ogni costo, di norma con i mezzi più semplici, la violenza - individuale o di gruppo - o il rischio della vita. Dopo decenni in cui si è profuso ogni sforzo per trasformare i bambini, o ragazzini, in consumatori simili agli adulti, ci si stupisce che essi, sprovvisti delle più elementari leve critiche, adottino anche gli altri lodevoli modelli di comportamento che gli adulti offrono loro.
Uno dei pochi che oggi sembra conservare senso di responsabilità e, Roberto Savianomeglio, di dignità, è Roberto Saviano, giornalista e scrittore napoletano di raro coraggio. In un suo recente articolo sull'Espresso, degno di attenta ed approfondita analisi, scrive:

Vedevo che i clan del centro storico meno potenti si stavano riorganizzando. E il primo passaggio è stato quello di ritornare sul territorio, negozi, magazzini, salumerie, le nuove leve dei clan stanno invece pensando a come tornare ad apparire mediaticamente i più temibili, divenire nuovamente quelli appartenenti al quartiere che più fa paura: "Dobbiamo far vedere a quelli di Scampia che noi siamo i peggio". Il medesimo stile che sta facendo comprare a moltissimi ragazzi dell'area nord di Napoli lo scooter T-max perché usato dalle paranze di fuoco dei Di Lauro per la parte maggiore degli agguati, una sorta di cavallo meccanico dell'apocalisse. Ma la loro ferocia è la medesima di chiunque possa considerarla uno strumento per crescere economicamente, iniziare un percorso nel mercato. L'ossessione del divenire commercianti e imprenditori, e di considerare lecita ogni forma per raggiungere una meta, l'ossessione che, rendendoli rivali, accomuna non solo i quartieri storici del centro alle periferie e ai paesi del hinterland, ma apparenta Napoli a Mosca o a Rio de Janeiro e mette in relazione le bande che rubano ed estorcono con l'uso di una violenza spropositata, strafatta, adrenalinica con le gang che dilagano per il Centro e Nordamerica, in Africa, in ogni altra parte del mondo.

Se ogni forma è lecita pur di raggiungere la meta che questa cultura ritiene la sola auspicabile, il successo economico e la visibilità che ne consegue - che a un livello più profondo significano esistenza dotata di un senso - perché il bambino o ragazzino non dovrebbe ricorrere ai mezzi a sua disposizione, nutriti dei tanti pregiudizi in cui si è trasformata la libera e responsabile attività del pensiero? Perché non picchiare un qualche portatore di stigma o, in sua assenza, stigmatizzare qualcuno per poterlo picchiare e vantarsene? Perché non replicare le "nuove" pratiche di conquista erotica, segno di una crescente incapacità comunicativa e della violenza brutale che ne consegue? Cosa c'è di strano o di stupefacente? La sola cosa strana è il fatto che queste semplici correlazioni non vengano in mente... Fortuna che c'è Cipolla che offre una desolante, ma efficace, chiave di lettura a questo ingombrante quesito.

venerdì 2 giugno 2006

Barbari e barbari

Alessandro Baricco si sta cimentando con un iperfeuilleton dal titolo eloquente I Barbari, le cui diverse puntate possono consultarsi visitando questa pagina. Al di là dell'indubbio interesse dell'operazione e dei contenuti, dove trovo all'opera un'ottica acutamente simbolica e transdisciplinare, quello che più mi lascia interdetto è la consultazione dei commenti dei lettori, stessa perplessità che mi attanaglia quando visito blog istituzionalizzati come quelli di Grillo o Rampini. Più che un dibattito sul tema in oggetto, quello che va ricorsivamente in scena è un bisogno isterico di espressione, l'incapacità di rinunciare per un attimo ai propri punti di vista e anzi il bisogno - di nuovo - di assumerli come pietra di paragone su cui infrangere tutto ciò che non vi si attaglia, di farli pietra con cui attaccare chiunque - cioè di norma tutti gli altri - non sia assolutamente e senza sfumature d'accordo con le proprie idee. Credo si dovrebbe avviare una riflessione scevra da pregiudizi sulla qualità dei contenuti del web, superando l'entusiasmo quantitativo e cominciando a porsi seriamente il problema dello smaltimento dei rifiuti 

giovedì 25 maggio 2006

Apocrifi vari

American GodsNon è molto scientifico, immagino, lasciare che le cose accadano "nella pienezza del tempo", come dice Joe Panther in uno dei libri che forniscono carburante a questo nuovo saggio atipico Non sarà molto scientifico, ma per ragioni difficilmente esplorabili funziona: tu hai un certo interesse di ricerca, che - se opportunamente ruminato e incorporato - diventa una specie di catalizzatore (o attrattore strano, se vogliamo scivolare nel caos :o) e ti porta a collidere con materiali assortiti che costellano più o meno evidentemente con l'interesse stesso. Per chi è bravo e riesce ad avere interessi congruenti dev'essere più facile... Quando uno è irrimediabilmente irretito dal fascino della ricerca stessa e dalle forme effimere che la guidano, la cosa rischia di comportare qualche difficoltà di gestione, nella migliore delle ipotesi E non solo, ma spesso e volentieri accade a tua insaputa e le risonanze, le affinità, le vedi dopo, quando sono talmente macroscopiche che le vedrebbe anche un cieco e ti dai anche dell'idiota per non averle notate prima!
Segnalavo già da un po', in un altro dei blog di questa strana costellazione in fieri, un interesse piuttosto appassionato per American Idiot dei Green Day, concept album di grande spessore sia concettuale che musicale, che se n'era stato lì in agguato per qualche tempo. Nel frattempo, perGli ultimi giorni ingannare le ore d'auto delle trasferte da e per Perugia, avevo pensato a qualche buon audio-book e mi era capitato tra le mani American Gods, di uno dei miei autori preferiti, Neil Gaiman (ora che ci penso anche il ciclo di Sandman e Good Omens possono rientrare a pieno titolo in questa carrellata!), ottimo ascolto che mi ha accompagnato dagli inizi del 2006 a pochi giorni fa, discretamente, sornione. Poi un'amica ci ha prestato il romanzo qui accanto, un apocrifo molto sui generis, per palati forti direi. E anche qui la mia vigile coscienza critica dormiva della grossa...
Poi sono andato a Strasburgo, relatore in un convegno sul buon Simmel, e l'amico organizzatore, conoscendo i miei lavori recenti, mi ha proposto di intervenire su Religiosità e postmodernità. Ancora niente, ma gli astri si erano sistemati tutti e aspettavano solo un'ultima scintilla, o la prima tessera del domino, se preferite. E la tessera l'ha spinta la coscienza improvvisa e sgradevole, la notte prima della relazione a Strasburgo, di aver sottovalutato l'impegno e di aver preparato dei materiali per un altro pubblico. Nottata frenetica di ricerca di uno spunto meno blando da trattare ed eccola, la tessera e tutto il resto del mosaico! Pensavo alla distinzione simmeliana tra religiosità e religione, la forza vitale e l'istituzione, al divorzio tra le due e alle diverse derive seguite dalla prima nei secoli, derive che erano le stesse che Maffesoli aveva appena proposto come figure del "re clandestino" della cultura occidentale: la natura, la scienza, l'Io e... Oggi, dov'è oggi il re della religiosità? Nel New Age? Nel consumo, dove l'ho già seguito per vie piuttosto accidentate? Oppure...
Oppure certi segni, sparsi, accidentali, suggeriscono un'altra ipotesi, che ha un suo fascino e probabilmente aiuta a spiegare macrodinamiche che le nostre teorie stentano ancora a comprendere. Questi accenni parlano di una riscoperta originale degli antichi materiali e degli antichi protagonisti, a volte dissacratoria, a volte ortodossa, quasi che sia in atto un riavvicinamento spiraliforme alle vecchie forme abbandonate tempo addietro. Del quale si giova ad esempio la più strutturata di esse, la nostra buona Chiesa cattolica, di cui si sarà notato il rinnovato presenzialismo sulla scena sociale e mediatica, ma anche altri agenti meno blasonati, come la Destra Cristiana made in USA o le tante sette che dal New Age attingono a piene mani, ma con autoritarismo molto più marcato. Se questo fosse vero, la stessa presenza confessionale nel Web avrebbe caratteri più variegati e complessi di quelli che vi abbiamo rinvenuto e la ricerca dei "cercatori d'assoluto" potrebbe, per mille rivoli, tornare a rivolgersi ai miti fondatori, magari nelle vesti poco canoniche di Yoshua ben Panther. Questo reincanto, ben raffigurato dalla schiera policroma e vibrante degli dèi americani di Gaiman, sarebbe in linea con lo slittamento di paradigma culturale/immaginale che mi sembra connotare questi anni e preludere a significative scosse d'assestamento all'interno della religione istituita e forse a un suo ulteriore recupero di importanza e peso nella società... C'è veramente di che meditare

venerdì 24 marzo 2006

Costruire e riprodurre lo stigma

Stasera, tra le news che ultimamente scorrono senza sosta sui servizi del Tg2 c'erano un paio di cose che meritano una minima riflessione. Una è che l'esigenza di sinteticità che affligge i media sta rapidamente culminando nella più totale idiozia, nel senso etimologico di particolarità tanto autocentrata da trasformarsi in menomazione intellettuale. Si aggiunga a questo la totale disattenzione per il senso che connota quasi tutte le componenti della società dell'informazione e si ottiene una chicca come questa:

D'Amato: Confindustria gestione Montezemolo pensa solo interessi

Il suo ex-presidente - per manifesta incapacità - accusa il più grande gruppo d'interesse italiano di essere il più grande gruppo d'interesse italiano e ciò fa notizia senza che alcuno si sbellichi o licenzi l'altro idiota che ha scritto queste parole. Trovo che, riprendendo quanto detto nel post precedente, simili manifestazioni di insufficienza mentale e professionale possano perfino contribuire a minare l'autorevolezza magica del malefico elettrodomestico. Non credo di poterla definire altro che tale, quest'autorevolezza che sa di accidia cognitiva, visto che pare impermeabile ad ogni smentita, compreso il fatto che giornalisti incapaci di chieder conto a chiunque delle corbellerie che sta in quel momento rigurgitando scendano in sciopero per la difesa dell'autonomia della categoria, mitica - questa autonomia - in Italia più o meno come l'araba Fenice o l'Idra di Lerna Detto questo, però, mi interessava di più riflettere sul sottile veleno nascosto in un'altra notizia flash:

Scomparso console canadese. Le sue carte di credito trovate a un extracomunitario

Qui la questione è meno evidente, si radica nel senso comune nella sua veste più oscura di pregiudizio, rivelandosi più insidiosa della circostanza per cui,
negli ultimi tempi, di ogni malfattore non ancora preso si riferisce che parla con accenti internazionalmente assortiti, ma mai dialettalmente connotati, salvo poi scoprirsi - all'arresto - che si tratta dei famosi inquilini normali dell'appartamento accanto o comunque di ceffi di provata italianità. Dov'è il problema di questa benedetta headline, direte voi a questo punto? Nella semplice circostanza che anche il console canadese è un extracomunitario. Solo che - guarda un po' - al giornalista non viene di etichettarlo così, forse perché per lui extracomunitario non significa "non appartenente alla UE" come molto, molto più di mezzo mondo (USA compresi...), bensì pezzente di colore troppo scuro o parlante lingua barbara. O non si è mai posto il problema. D'altra parte lui con le parole mica ci lavora...
Questo è il problema dei toni impliciti, che veicolano significati a volte del tutto involontari o facilmente ed efficacemente strumentalizzabili e ottengono risultati di grande effetto e grande danno, con leggerezza. L'atrofia della mente è la grande malattia del XXI secolo.

giovedì 23 marzo 2006

The 4400, ovvero USA e rapporti primari

The 4400Di norma ci si mette a guardare la tv senza farci troppo caso  Il malefico apparecchio, tra l'altro, è dotato di un'assertività magica per la quale tendiamo a dar per buono quello che ne esce perlomeno fino a prova contraria e in molti casi ben oltre ogni ragionevolezza. Il senso critico si appanna e va a finire che non si notano buchi di trama, contraddizioni o particolari stridenti che ci parlano di multicultura e profonde differenze in seno al nostro occidente. The 4400 rientra a dire il vero nell'ultima categoria, in quanto testo denso di spunti sui rapporti umani in terra d'America (USA). Trama da maniaci: 4400 disgraziati vengono rapiti da alieni (o almeno sembra la circostanza più probabile) nell'arco di sessant'anni e poi rispediti sulla Terra tutti insieme ai giorni nostri. Facile immaginare che il loro ritorno crei qualche problema a livello di rapporti primari, nelle reti di cui facevano parte e anche negli stessi malcapitati, che tra l'altro non sono invecchiati di un giorno e hanno a che fare con parenti e amici morti o decrepiti. Ma questo non sarebbe nulla! Il focus della questione è sul tipo di problemi e sulle dinamiche che innescano. Allora: al di là di una generica accusa di essere freak, mostri (raccomando la splendida canzone dei Marillion dallo stesso nome, testo qui) che possiamo ricollegare senza grosso stress all'angoscia del diverso, abbiamo un generoso assortimento di casi umani che - e questo è l'aspetto più inquietante - non vengono concepiti come particolarmente centrati sull'aspetto relazionale, ma presentati come una "normale" esplorazione delle reazioni del cittadino medio verso i suoi cari scomparsi senza alcuna colpa per circostanze inspiegabili. Una mogliettina torna a casa dopo 13 anni: lasciava un marito e una figlia di 6 mesi. Quando viene dimessa dalla quarantena cui tutti e 4400 sono stati sottoposti, non trova un'anima ad attenderla e, una volta arrivata a casa, scopre che il marito si è risposato e non ha mai detto alla figlia che l'attuale madre non è la madre naturale. Dopo 13 anni potremmo dire che è comprensibile, ma non ti sprechi neanche ad andare a dirglielo di persona, pur se avvisato dalle autorità? E la prima cosa che fai è appiopparle un'ordinanza restrittiva che le impedisca di avvicinarsi a te e alla figlia?Laughing Mannequins - Alvarez Bravo Un ragazzo torna dopo soli 3 anni, quando è stato preso suo cugino che era con lui è entrato in coma e c'è rimasto. Lo zio, investigatore protagonista della serie, come lo vede lo accusa praticamente di essere il responsabile della disgrazia del figlio e gliene chiede conto, pur sapendo che tutti  e 4400 non ricordano un beneamato accidenti.  Sembra convinto che il nipote abbia spento suo figlio per poi andarsi  a fare una gita intergalattica Il fratello del giovane, dopo i primi momenti di gioia, comincia a condividere l'atteggiamento imbarazzato-stolido-vigliacco di tutti i suoi coetanei e poi, dopo aver assistito a una strana manifestazione di potere da parte del parente ritornato, gliene chiede ripetutamente conto a brutto muso per poi dileggiarlo apertamente. La richiesta di spiegazioni è il centro delle dinamiche di relazione, lo choc dell'incomprensibile si traduce in stigma per gli involontari portatori e non c'è alcun tessuto di affettività che faccia premio sullo stress razionale, alcun legame che spinga a fare muro in suo nome, come ci aspetteremmo - nel bene o nel male - in un contesto simile al nostro. Carne e sangue non parlano a nessuno degli sventurati o ai loro congiunti. Sì, perché non è che gli sventurati siano molto meglio. Il giovane di cui qui sopra, una volta scoperto che il cugino è in coma un po' anche a causa sua, ci mette quasi un mese per andarlo a trovare in ospedale e, quando lo fa, si sospetta che sia solo per testare una teoria su un suo nuovo, inspiegabile potere. Già, non sono solo freaks nell'immaginazione collettiva, lo sono diventati anche di fatto, in una versione nuova e interessante del tema di X-Men

domenica 29 gennaio 2006

C.S.I.: artificialismo e relazione

Il fatto che nel senso comune vita quotidiana e processi culturali “alti” vengano percepiti come autonomi gli uni rispetto agli altri fa sì che solo pochi ne azzardino un’interpretazione incrociata o, per meglio dire, tentino di scoprire delle correlazioni tra loro. Ed è un peccato, perché i cambiamenti di orientamento e di equilibrio tra le diverse dottrine che in ogni momento storico formano il corpo vivo di una cultura si riflettono in modi insospettati sui suoi molteplici aspetti. La rifrazione avviene secondo logiche non lineari né esclusivamente razionali, seguendo spesso i principi formali di costellazione simbolica studiati da Durand, e testimonia della Wechselwirkung che ad ogni livello connette l’interezza del corpo sociale e delle sue svariate produzioni, come genialmente tradotto da Douglas Adams, mai abbastanza compianto autore della Guida intergalattica per autostoppisti, con il principio della “fundamental interconnectedness of things”. Va riconosciuta la capacità visionaria e profetica di Adams, abile nell’usare concetti al tempo esoterici in un contesto comico-satirico che se ne rende filtro e viatico per suggerire implicitamente spunti di riflessione.





Mentre sembra che Adams avesse di mira proprio questo risultato – come pare evidente dagli intenti civici dissimulati in Last Chance to SeeLast Chance to Seealtre produzioni nascono e conoscono successi sinora impensabili anche grazie al loro incarnare principi teorici che sono in fase crescente, dopo eclissi più o meno prolungate. È questo il caso del serial C.S.I. - Crime Scene Investigation. In proposito, vale la pena di cominciare da un presupposto implicito, ovvero dalla mutazione immaginale che dal detective solitario, classico anti-eroe maledetto e dark, ha portato all’équipe asettica in cui si evidenzia tutt’al più un primus inter pares, che può difficilmente connotarsi come leader tradizionale. Da questo punto di vista, l’angolo visuale che voglio evidenziare nella concezione del serial è del tutto anomalo, poiché quello che più appare evidente, da una rapida ricognizione delle trame e degli ambienti, è l’inno alla tecnologia e il metadiscorso del controllo realizzato per suo tramite, che si sostanzia nel sempre più marcato investimento da parte dei governi di molti paesi in ricerche su tecniche di misurazione biometrica sempre più sofisticate. Riducendo al minimo l’intuizione della serie, si può dire che il messaggio è: “Per quanto sottilmente l’animale che è in te riesca a dissimulare le sue tracce, i nostri nuovi strumenti sono in grado di braccarlo e sconfiggerlo. Conformati o sarai schiacciato”. In qualche modo la prima, più ovvia interpretazione del telefilm è in chiave artificialista: la macchina batte l’uomo e di conseguenza, anche a livello di protagonisti, l’uomo è tutto Gil Grissomsommato secondario, interscambiabile. Ecco quindi il team e non l’eroe, la frequente messa in discussione del primato individuale, fino a Gil Grissom (William Petersen) degradato per scarsa capacità di conformarsi ai protocolli impersonali che sono l’anima del suo mestiere.





Questo specifico tema, tuttavia, risulta dissonante dall’ispirazione centrale come appena evidenziata, perché pare rivalutare l’uomo (la nostra simpatia va immancabilmente al vecchio misantropo) contro l’alienazione programmata e scientificamente fondata di un sistema che dell’uomo stesso può fare sempre più a meno (o almeno crede). La stessa modulazione si coglie nella valorizzazione che affiora spesso dell’intuito umano, visto come il solo fattore capace di mettere in relazione le prove “brute” che da sé non direbbero nulla o a volte potrebbero perfino sbagliarsi! E proprio questo introduce alle osservazioni che mi ero prefisso all’inizio: contro l’apparenza (forse addirittura contro le intenzioni esplicite di chi ha concepito la serie), C.S.I. trae parte del suo fascino e successo dal fatto di mettere in scena costantemente, su più livelli, l’interazione creativa che buona parte della sociologia attuale pone alla base dell’essere sociale – la Wechselwirkung simmeliana o, alla Adams, “the fundamental interconnectedness of things”. In quest’ottica la squadra non è più un insieme di elementi funzionali al sofisticatissimo parco macchine delUna macchina inusuale laboratorio, ma un insieme di soggetti abili nel connettere le proprie risorse intellettuali e creative così da risolvere enigmi complessi, qualcosa di molto più vicino alle filosofie organizzative delle Human Resources, per quanto detesti l’etichetta, che non al funzionalismo tecnologico. Di più, un insieme di pari dignità la cui esistenza stessa serve di lezione alle tendenze inflattive dell’Io, ridimensionandole in tutti i suoi membri e insegnando loro una significativa lezione di umiltà. E poi c’è il discorso neopositivista del culto delle prove, nel quale si cita l’eterno rimando alla “dura lezione dei fatti”. Non a caso in inglese si dice hard evidence, prove toste, dure, irrefutabili. Lo stesso dei fatti sociali di inizio XX secolo. Stessi termini, stessa ideologia, direi, soprattutto se si pensa all’uso veramente ideologico che se ne fa (delle prove dico) negli USA in occasione dei vari processi che culminano nella messa a morte dello sfigato di turno… Queste stesse prove dure traggono, a ben vedere, il proprio senso solo dall’interpretazione umana, spesso non razionale, ma dettata da intuito, ricordi, emozioni. Ancora e infine, a un livello più profondo, ma che si potrebbe definire essenziale per l’intera serie, l’interazione fondante tra vittima e carnefice, quella descritta nel principio di scambio di Locard per cui l’una lascia sempre qualcosa di sé sull’altro e viceversa. Principio su cui si basa la certezza inquisitoria di Grissom e la sua fiducia incrollabile in quelle prove che spesso compaiono solo perché lui le cerca e non di loro spontanea ed autoevidente volontà e che spesso sembrano contraddirlo, se non si rivelano fuorvianti perché inserite in un quadro concettuale o cognitivo inadeguato. Il principio di Locard è l’inevitabilità della relazione e mi pare emblematico di una modulazione interpretativa della serie che le restituisce un’interessante umanità e, addirittura, una vena sovversiva.

sabato 28 gennaio 2006

Simmel e i periodici

Le prime cose sono sempre le più difficili da scrivere, anche se si tratta soltanto di ciottoli, termine più orientale che ho scelto per parlare di frammenti, schegge, accenni, affioramenti di idee eccetera eccetera. Ho sempre difficoltà a definire un inizio. Ne ho sempre avute, adepto anzitempo della forma formans e quindi in fuga dalla noia mortale che viene dall’intraprendere un progetto del quale si sa già dove andrà a finire. A questo proposito Maffesoli cita una splendida frase di Benjamin che potrebbe essere il manifesto di queste pagine virtuali: “L’opera è la maschera mortuaria della concezione”. E allora eccomi qui che mi dibatto in un abbozzo di idea, vedendomi lampeggiare davanti agli occhi spunti interessanti ma ancora incapace di preferirne uno, anche se sotto sotto lo so dove vorrei andare a parare. Vorrei prendermela un po’ con questa malefica trovata del “progetto”, che avvelena la vita e le ruba ritmo e sostanza, trovata contrabbandata per di più come sprazzo di genio e che non fa invece che sterminare l’incanto dei giorni, ipotecando il futuro e rendendolo inutile di esser raggiunto.




Accidenti, avevo pensato di restare più sul fair play, invece di ritrovarmi nel bel mezzo di un’invettiva, ma tant’è! Pian piano imparerò a dosare anche queste righe. A prescindere dallo stile, però, il senso c’è e per darne una percezione migliore ho pensato di ricorrere al mio maestro – anch’egli virtuale, ma per un problema di diacronia – Georg Simmel e a uno dei tanti spunti che mi ricordo, senza però sapere da dove, senza potergli quindi dare un’adeguata veste formale in sede di saggio scientifico Notava, Simmel, che l’idea di stampa periodica è in fin dei conti un controsenso, laddove si intenda la notizia come qualcosa di cui vale la pena informare un qualche pubblico. Perché chi garantisce ai redattori la disponibilità regolare di notizie? La loro necessità, generata dagli investimenti in apparecchiature, stipendi e materie prime, di presentarsi regolarmente in edicola non farà che obbligarli a costruire come notizie fatti che si potrebbero senza alcuna difficoltà passare sotto silenzio, incrementando la mole già smodata di cultura oggettiva che asfissia i poveri soggetti e disorientandoli sempre più. Allo stesso modo, questa regolarità potrebbe costringere i valenti giornalisti a non riuscire a dar conto di un periodo particolarmente “interessante” – à la Mao – perché le maledette notizie potrebbero allora presentarsi in modo concitato e disordinato, rendendo controproducente la “saggia” pianificazione economicamente fondata…




L’aspetto strumentalmente soffocante dell’idea di progetto assume caratteri iperbolici quando la si applica alla ricerca scientifica (e qui la lingua batte dove il dente duole ). Non so se coloro che sembrano preferire lo schema alla ricerca stessa (forma contro vita? Ma dai!) si rendano conto o meno del paradosso, ma se veramente cerco qualcosa non so assolutamente come trovarlo prima di averlo trovato, figuriamoci prevedere i diversi steps che mi ci porteranno e il tempo che mi occorrerà per completarli. Di fatto è una gigantesca presa per i fondelli, reciproca e condivisa, per ingigantire ancora una volta la massa (la quantità? Ma dai!) di prodotti scientifici – e anche qui l’uso del termine spinge a serrare le mascelle per non urlare! – che la nostra cultura si inorgoglisce di evacuare costantemente sul mercato, nella strenua convinzione che tanto sia buono e di più sia meglio. Al di là di questo, tuttavia, la questione è anche più esistenzialmente profonda: dov’è lo stimolo a raggiungere un domani del quale si sa già tutto: la scansione degli impegni, il tempo atmosferico, gli incontri, il luogo dove avverrà? L’unica cosa che può avere di buono una pianificazione così spinta è che mi permette di dare i giorni per già vissuti con largo anticipo e quindi strappati simbolicamente alla morte, anche se – come nota il buon Woland – “è proprio dell’uomo essere mortale all’improvviso” e non credo che al saldo finale un progetto di giorno valga quanto un giorno vissuto. L’ironia profonda di questa smania regolativa sta proprio qui: nel fatto che, pur senza morire, si passa di progetto in progetto, perdendo di vista il fascino, il rischio e la sorpresa della vita che si fa, continuamente dimentica dei nostri programmi. E l’aver precedentemente progettato ci lascia a disposizione, nel migliore dei casi, una soddisfazione disincantata per lo svolgersi regolato dei fatti previsti: nessuna gioia in caso di successo, terribili frustrazioni in caso di (probabile, per la legge di Murphy) fallimento. Frustrazioni amplificate dalla posta in pegno metafisica di ogni questione di controllo: se non riesco neanche a fare il tagliando alla macchina, figurati sopravvivere con una certa tranquillità!



Tante parole per dire che non so che ritmo avranno i post in questo blog, vero? Né se si rivelerà una buona idea o l’ennesima meteora. Quel che certo è che per ora tutto mi sembra tranne che una maschera mortuaria