domenica 29 gennaio 2006

C.S.I.: artificialismo e relazione

Il fatto che nel senso comune vita quotidiana e processi culturali “alti” vengano percepiti come autonomi gli uni rispetto agli altri fa sì che solo pochi ne azzardino un’interpretazione incrociata o, per meglio dire, tentino di scoprire delle correlazioni tra loro. Ed è un peccato, perché i cambiamenti di orientamento e di equilibrio tra le diverse dottrine che in ogni momento storico formano il corpo vivo di una cultura si riflettono in modi insospettati sui suoi molteplici aspetti. La rifrazione avviene secondo logiche non lineari né esclusivamente razionali, seguendo spesso i principi formali di costellazione simbolica studiati da Durand, e testimonia della Wechselwirkung che ad ogni livello connette l’interezza del corpo sociale e delle sue svariate produzioni, come genialmente tradotto da Douglas Adams, mai abbastanza compianto autore della Guida intergalattica per autostoppisti, con il principio della “fundamental interconnectedness of things”. Va riconosciuta la capacità visionaria e profetica di Adams, abile nell’usare concetti al tempo esoterici in un contesto comico-satirico che se ne rende filtro e viatico per suggerire implicitamente spunti di riflessione.





Mentre sembra che Adams avesse di mira proprio questo risultato – come pare evidente dagli intenti civici dissimulati in Last Chance to SeeLast Chance to Seealtre produzioni nascono e conoscono successi sinora impensabili anche grazie al loro incarnare principi teorici che sono in fase crescente, dopo eclissi più o meno prolungate. È questo il caso del serial C.S.I. - Crime Scene Investigation. In proposito, vale la pena di cominciare da un presupposto implicito, ovvero dalla mutazione immaginale che dal detective solitario, classico anti-eroe maledetto e dark, ha portato all’équipe asettica in cui si evidenzia tutt’al più un primus inter pares, che può difficilmente connotarsi come leader tradizionale. Da questo punto di vista, l’angolo visuale che voglio evidenziare nella concezione del serial è del tutto anomalo, poiché quello che più appare evidente, da una rapida ricognizione delle trame e degli ambienti, è l’inno alla tecnologia e il metadiscorso del controllo realizzato per suo tramite, che si sostanzia nel sempre più marcato investimento da parte dei governi di molti paesi in ricerche su tecniche di misurazione biometrica sempre più sofisticate. Riducendo al minimo l’intuizione della serie, si può dire che il messaggio è: “Per quanto sottilmente l’animale che è in te riesca a dissimulare le sue tracce, i nostri nuovi strumenti sono in grado di braccarlo e sconfiggerlo. Conformati o sarai schiacciato”. In qualche modo la prima, più ovvia interpretazione del telefilm è in chiave artificialista: la macchina batte l’uomo e di conseguenza, anche a livello di protagonisti, l’uomo è tutto Gil Grissomsommato secondario, interscambiabile. Ecco quindi il team e non l’eroe, la frequente messa in discussione del primato individuale, fino a Gil Grissom (William Petersen) degradato per scarsa capacità di conformarsi ai protocolli impersonali che sono l’anima del suo mestiere.





Questo specifico tema, tuttavia, risulta dissonante dall’ispirazione centrale come appena evidenziata, perché pare rivalutare l’uomo (la nostra simpatia va immancabilmente al vecchio misantropo) contro l’alienazione programmata e scientificamente fondata di un sistema che dell’uomo stesso può fare sempre più a meno (o almeno crede). La stessa modulazione si coglie nella valorizzazione che affiora spesso dell’intuito umano, visto come il solo fattore capace di mettere in relazione le prove “brute” che da sé non direbbero nulla o a volte potrebbero perfino sbagliarsi! E proprio questo introduce alle osservazioni che mi ero prefisso all’inizio: contro l’apparenza (forse addirittura contro le intenzioni esplicite di chi ha concepito la serie), C.S.I. trae parte del suo fascino e successo dal fatto di mettere in scena costantemente, su più livelli, l’interazione creativa che buona parte della sociologia attuale pone alla base dell’essere sociale – la Wechselwirkung simmeliana o, alla Adams, “the fundamental interconnectedness of things”. In quest’ottica la squadra non è più un insieme di elementi funzionali al sofisticatissimo parco macchine delUna macchina inusuale laboratorio, ma un insieme di soggetti abili nel connettere le proprie risorse intellettuali e creative così da risolvere enigmi complessi, qualcosa di molto più vicino alle filosofie organizzative delle Human Resources, per quanto detesti l’etichetta, che non al funzionalismo tecnologico. Di più, un insieme di pari dignità la cui esistenza stessa serve di lezione alle tendenze inflattive dell’Io, ridimensionandole in tutti i suoi membri e insegnando loro una significativa lezione di umiltà. E poi c’è il discorso neopositivista del culto delle prove, nel quale si cita l’eterno rimando alla “dura lezione dei fatti”. Non a caso in inglese si dice hard evidence, prove toste, dure, irrefutabili. Lo stesso dei fatti sociali di inizio XX secolo. Stessi termini, stessa ideologia, direi, soprattutto se si pensa all’uso veramente ideologico che se ne fa (delle prove dico) negli USA in occasione dei vari processi che culminano nella messa a morte dello sfigato di turno… Queste stesse prove dure traggono, a ben vedere, il proprio senso solo dall’interpretazione umana, spesso non razionale, ma dettata da intuito, ricordi, emozioni. Ancora e infine, a un livello più profondo, ma che si potrebbe definire essenziale per l’intera serie, l’interazione fondante tra vittima e carnefice, quella descritta nel principio di scambio di Locard per cui l’una lascia sempre qualcosa di sé sull’altro e viceversa. Principio su cui si basa la certezza inquisitoria di Grissom e la sua fiducia incrollabile in quelle prove che spesso compaiono solo perché lui le cerca e non di loro spontanea ed autoevidente volontà e che spesso sembrano contraddirlo, se non si rivelano fuorvianti perché inserite in un quadro concettuale o cognitivo inadeguato. Il principio di Locard è l’inevitabilità della relazione e mi pare emblematico di una modulazione interpretativa della serie che le restituisce un’interessante umanità e, addirittura, una vena sovversiva.

sabato 28 gennaio 2006

Simmel e i periodici

Le prime cose sono sempre le più difficili da scrivere, anche se si tratta soltanto di ciottoli, termine più orientale che ho scelto per parlare di frammenti, schegge, accenni, affioramenti di idee eccetera eccetera. Ho sempre difficoltà a definire un inizio. Ne ho sempre avute, adepto anzitempo della forma formans e quindi in fuga dalla noia mortale che viene dall’intraprendere un progetto del quale si sa già dove andrà a finire. A questo proposito Maffesoli cita una splendida frase di Benjamin che potrebbe essere il manifesto di queste pagine virtuali: “L’opera è la maschera mortuaria della concezione”. E allora eccomi qui che mi dibatto in un abbozzo di idea, vedendomi lampeggiare davanti agli occhi spunti interessanti ma ancora incapace di preferirne uno, anche se sotto sotto lo so dove vorrei andare a parare. Vorrei prendermela un po’ con questa malefica trovata del “progetto”, che avvelena la vita e le ruba ritmo e sostanza, trovata contrabbandata per di più come sprazzo di genio e che non fa invece che sterminare l’incanto dei giorni, ipotecando il futuro e rendendolo inutile di esser raggiunto.




Accidenti, avevo pensato di restare più sul fair play, invece di ritrovarmi nel bel mezzo di un’invettiva, ma tant’è! Pian piano imparerò a dosare anche queste righe. A prescindere dallo stile, però, il senso c’è e per darne una percezione migliore ho pensato di ricorrere al mio maestro – anch’egli virtuale, ma per un problema di diacronia – Georg Simmel e a uno dei tanti spunti che mi ricordo, senza però sapere da dove, senza potergli quindi dare un’adeguata veste formale in sede di saggio scientifico Notava, Simmel, che l’idea di stampa periodica è in fin dei conti un controsenso, laddove si intenda la notizia come qualcosa di cui vale la pena informare un qualche pubblico. Perché chi garantisce ai redattori la disponibilità regolare di notizie? La loro necessità, generata dagli investimenti in apparecchiature, stipendi e materie prime, di presentarsi regolarmente in edicola non farà che obbligarli a costruire come notizie fatti che si potrebbero senza alcuna difficoltà passare sotto silenzio, incrementando la mole già smodata di cultura oggettiva che asfissia i poveri soggetti e disorientandoli sempre più. Allo stesso modo, questa regolarità potrebbe costringere i valenti giornalisti a non riuscire a dar conto di un periodo particolarmente “interessante” – à la Mao – perché le maledette notizie potrebbero allora presentarsi in modo concitato e disordinato, rendendo controproducente la “saggia” pianificazione economicamente fondata…




L’aspetto strumentalmente soffocante dell’idea di progetto assume caratteri iperbolici quando la si applica alla ricerca scientifica (e qui la lingua batte dove il dente duole ). Non so se coloro che sembrano preferire lo schema alla ricerca stessa (forma contro vita? Ma dai!) si rendano conto o meno del paradosso, ma se veramente cerco qualcosa non so assolutamente come trovarlo prima di averlo trovato, figuriamoci prevedere i diversi steps che mi ci porteranno e il tempo che mi occorrerà per completarli. Di fatto è una gigantesca presa per i fondelli, reciproca e condivisa, per ingigantire ancora una volta la massa (la quantità? Ma dai!) di prodotti scientifici – e anche qui l’uso del termine spinge a serrare le mascelle per non urlare! – che la nostra cultura si inorgoglisce di evacuare costantemente sul mercato, nella strenua convinzione che tanto sia buono e di più sia meglio. Al di là di questo, tuttavia, la questione è anche più esistenzialmente profonda: dov’è lo stimolo a raggiungere un domani del quale si sa già tutto: la scansione degli impegni, il tempo atmosferico, gli incontri, il luogo dove avverrà? L’unica cosa che può avere di buono una pianificazione così spinta è che mi permette di dare i giorni per già vissuti con largo anticipo e quindi strappati simbolicamente alla morte, anche se – come nota il buon Woland – “è proprio dell’uomo essere mortale all’improvviso” e non credo che al saldo finale un progetto di giorno valga quanto un giorno vissuto. L’ironia profonda di questa smania regolativa sta proprio qui: nel fatto che, pur senza morire, si passa di progetto in progetto, perdendo di vista il fascino, il rischio e la sorpresa della vita che si fa, continuamente dimentica dei nostri programmi. E l’aver precedentemente progettato ci lascia a disposizione, nel migliore dei casi, una soddisfazione disincantata per lo svolgersi regolato dei fatti previsti: nessuna gioia in caso di successo, terribili frustrazioni in caso di (probabile, per la legge di Murphy) fallimento. Frustrazioni amplificate dalla posta in pegno metafisica di ogni questione di controllo: se non riesco neanche a fare il tagliando alla macchina, figurati sopravvivere con una certa tranquillità!



Tante parole per dire che non so che ritmo avranno i post in questo blog, vero? Né se si rivelerà una buona idea o l’ennesima meteora. Quel che certo è che per ora tutto mi sembra tranne che una maschera mortuaria