lunedì 25 giugno 2007

Why me?

Riprendo il filo delle ultime annotazioni - qui sotto, il link non serve  - sulla scorta della visione del nuovo episodio dei Fantastici 4, per l'occasione accanto a Silver Surfer. E introduco questa nuova puntata con un tormentone che gli affezionati del fantasy conoscono bene: quello che accompagna tutta la prima trilogia di David Eddings, ilBelgarion Belgariad. Che, detto per inciso, ho sempre trovato di grande aiuto nei momenti in cui la fuga e il cambio d'aria mentale si imponevano. Il povero Garion, cresciuto per tutta la vita convinto di essere semplicemente una nullità, si trova erede di un trono e unico eroe in grado di salvare, tanto per cambiare, il mondo. E non fa che chiedersi, forse anche con troppa frequenza, "perché io?". E' un ritornello che ultimamente mi torna in mente piuttosto di frequente: in ultima analisi tutte le stagioni di Smallville - l'infanzia di Superman - risuonano dello stesso lamento sconsolato; l'Uomo Ragno si chiede spesso la stessa cosa e oggi anche Mr Fantastic e la Donna Invisibile si scoprono accorati dalla disgrazia toccata loro di questi superpoteri così ingombranti da impedire una vita normale... Che devo dire, mi sembra tanto strano! Al di là della chiarezza concettuale di chi scrive le storie, questa densità di insoddisfazione verso un'evidente unicità urta frontalmente con la retorica che invece è sempre più ingombrante nel discorso mediatico, quella del "se non sei unico, non sei!" e che costituisce l'essenza della cultura attuale. Dev'esserci, da qualche parte, la fregatura! In altre parole, come mai il supereroe - che dovrebbe essere l'ennesima potenza dell'ormai superato eroe, che è unico per antonomasia e costituisce perciò il modello della tanto strombazzata originalità contemporanea - ambisce a essere normale, quando tutti i normali del mondo vorrebbero essere come lui? I due sposi fantasticiHo una mezza teoria in proposito, che usa un po' di Durand e un po' di Dumont e drammatizza questi avvenimenti, restituendo loro un po' d'incanto: nella fiction, non solo fantasy romanzesca, ma anche cinematografica e fumettistica, cioè nel mondo dell'immaginario, lo scontro tra regime diurno e regime notturno si sta combattendo, come è giusto, senza esclusione di colpi. Se da una parte a volte l'immaginario ne mette a segno di magistrali, come ad esempio 300, dall'altra lo scontro è sovente in bilico e il risultato è un tessuto immaginale contraddittoriale, con slanci di ampio respiro e ricadute nel prosaico ed utilitarista da brivido. A parte gli appunti sull'opera di Martin (sempre qui sotto), gli esempi portati finora sono piuttosto calzanti e a mio parere efficaci: prendiamo le tute dei Fantastic 4 zeppe dei logo dei vari sponsor o le citazioni per danni relative alle loro gesta - cosa già vista, con altro accento, ne Gli incredibili, che è una favola sulla sopravvivenza dell'incanto nonostante l'economicismo. L'immaginazione oggi sembra spaventata da se stessa, si sta autocensurando e ha bisogno di giustificare i suoi voli, dar loro un'apparenza scientifica o sottometterli comunque alle "rassicuranti" leggi del mercato. A tratti. A tratti, in certi autori, se ne frega bellamente: a parte i lavori grafici di Frank Miller e Neil Gaiman e le loro riduzioni cinematografiche, penso all'appena visto Le avventure del barone di Munchausen, dove il barone è proprio l'incarnazione dell'autofondazione dell'immaginario e della futilità di ogni sua riduzione a qualcos'altro. Il problema è che i fantasmi contro cui la volontà riduttiva si batte sono seri e sono da sempre spauracchi della nostra cultura. Alla radice del famoso "why me?", infatti, a ben vedere, non c'è altro che il rifiuto della vocazione, la sensazione di veder limitate le proprie possibilità esistenziali e quindi di non esser liberi di scegliere. E questa libertà di scelta è uno degli idoli più significativi del nostro tempo. Non è un caso che il cattivo dei Fab FourJames Hillman della Marvel si chiami dottor Destino, perché il punto dolente è proprio questo: il (super) eroe non è libero, come non è libero - a meno di non rifarsi saggiamente, come insegna Hillman, al mito di Er - chiunque segua il suo demone. Ecco che le vie della fiction hollywoodiana mi riportano a una delle mie passioni scientifiche: la Bildung e lo strano uso che ne stiamo facendo, del quale a dire il vero molti non hanno alcuna idea Siamo costantemente in equilibrio - nel migliore dei casi - tra il richiamo della rassicurante routine quotidiana e l'anelito verso l'unicità che custodiamo in noi e di cui il DNA può esser letto come l'ennesima riduzione, anelito che però ci spaventa, perché ci ricorda ora e sempre che gli eroi pagano un prezzo piuttosto alto per la fama. Dev'essere questa la ragione per cui  tempo fa Fish scriveva "Heroes don't come easy". L'attuale pletora di splendidi riluttanti non può non far apprezzare per converso Leonida e la piena coscienza con cui si immola alla forza del mito.

mercoledì 6 giugno 2007

Qualche idea sul fantasy

Si fa presto a dire fantasy, soprattutto in Italia, dove il termine "fantasia" soffre di inossidabili preconcetti e sta riemergendo dal dimenticatoio attraverso la cooptazione interessata dell'economia, che l'ha trasformata in creatività mirata alla produzione di nuove merci. Non che questo accada solo da noi, ma qui siamo vittime di una spocchia particolare per cui tutto ciòGhiaccio bollente che non è contemplazione verbosa del proprio ombelico viene visto come letteratura di serie B, indegna dell'attenzione adulta dei lettori. Specie, peraltro, in via d'estinzione, ma questa è un'altra faccenda. Ad ogni modo, il lettore "forte", in Italia, ritiene in linea di massima di non sprecare il proprio tempo con argomenti per l'appunto fantasiosi, guardando Il Signore degli Anelli come un momento di istupidimento collettivo e tralasciando ogni contatto con altri universi che nel frattempo, in altre nazioni, prendono forma e si rivelano come fenomeni letterari degni di grande rispetto. Credo che quello che ho scritto a proposito di 300 sia piuttosto indicativo: non è comunque mia intenzione tornare adesso sulle questioni dell'immaginale e del danno che il divorzio occidentale dal suo mondo ci sta procurando. Né voglio scrivere di un'altra faccenda spinosa, ossia dell'abbandono da parte della "Sinistra" di questi temi a una strumentalizzazione da parte della "Destra", che è di suo piuttosto fiacca, ma gode del fascino ancestrale che un tale apparato simbolico-narrativo esercita di per sé su chiunque, indipendentemente dalle sue convinzioni o dai suoi pregiudizi...
Certo, lo stigma in questo senso ha radici comuni col tema sul quale volevo dilungarmi, ossia la trama della Canzone del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin (pare che se non hai 2 R nel nome non puoi scrivereSarà Ghost? fantasy ), perché deriva secondo me dalla distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura, intesa nella fattispecie al quadrato. Deriva, in ultima istanza, dal pregiudizio economicistico e dal giudizio di inutilità conseguente su filoni e creazioni fondamentalmente ispirati ad altri valori, percepiti in modo oscuro come pericolosi. D'altro canto credo che proprio questa sia una delle radici più coscienti del crescente interesse per il genere che, anche in Italia, nonostante quanto detto prima, viene lentamente conquistando spazio. Ci si potrebbe chiedere cosa c'entri questo col lavoro di Martin: per chiarire la cosa, sarà il caso di dire preliminarmente qualcosa sulla Canzone. Si tratta di un'opera grandiosa, nella quale numerose trame si intrecciano a descrivere quello che gli scettici potrebbero definire l'ennesimo mondo fantasy. Il punto è che lo spessore di Westeros è del tutto atipico: la ricchezza della sua cultura, la profondità storica della ricostruzione - trattandosi di un universo medievale nel quale vigono le leggi del sangue e dell'onore, il parallelo col Medioevo storico è fondante - sono impressionanti e l'arte dell'autore nel gestire l'intera materia degna di invidia e fonte di ore di lettura ipnotica. Dov'è il problema?The Wall
Definirlo problema è forse esagerato, ma il mio grado di esasperazione verso le semplificazioni economicistiche è sempre più acuto: trovarmelo incarnato in uno dei personaggi più subdoli ed efficaci dei cinque romanzi che si sono succeduti fino ad oggi è quasi doloroso Parlo di Littlefinger, del quale non ho presente la traduzione italiana, il Mastro di Zecca del reame e colui che finora è riuscito a farsi beffe dell'intero sistema di valori tradizionale di Westeros, piegandolo ai suoi fini grazie a un'intelligenza notevole e all'uso spregiudicato del denaro e delle costrizioni che detto sistema esercita su coloro che ne fanno parte. La morale è che l'intero mondo così amorevolmente ricostruito assume sempre più, alla luce delle imprese del signore del colibrì, l'aria di una facciata vuota, di un guscio pronto al collasso. Certo, Littlefinger è una delle possibili soluzioni; ci sono anche in gioco i Draghi dell'Est e i pericoli del Nord, Daenerys e Jon Snow, cosicché l'intera saga potrebbe esser letta come uno studio in figura epica delle possibili evoluzioni della nostra cultura se la scienza non vi avesse così vigorosamente attecchito. Più che un'evoluzione materiale, direiDaenerys Targaryen un'evoluzione spirituale, mentale, dove lo spazio per il disincanto - che pure in Westeros è uno dei grandi problemi con i quali l'intera società si sta confrontando, visto lo scetticismo con cui i reami del Sud accolgono una serie di notizie cruciali - è ancora contenuto e una qualche misericordia divina si sta adoperando per frenarne l'espansione. Voglio augurarmi che, almeno in Westeros, l'economia fallisca nelle sue trame e non sostituisca la magia del tintinnio dell'oro a quella del volo incantato dei draghi.