sabato 2 giugno 2012

Alla corsara 5 - Un chilo di coesione, grazie

Come in ogni momento di crisi, gli appelli alla coesione, solidarietà e fiducia reciproca fioccano, accolti in larga misura da sbuffi e contestazioni assortite. Spesso a sbuffare sono gli stessi che pretendono la solidarietà altrui, manifestando allo stesso tempo sfiducia e sospetto per coloro che dovrebbero dispensarne i frutti. Per quanto irritante, è una situazione che richiede una qualche riflessione - che di solito si evita perché finisce inevitabilmente per intaccare i comodi assunti di senso comune con i quali ci si destreggia nel disordine contemporaneo, politici, scienziati sociali, commentatori e spettatori uniti nella miopia.

La prima domanda che si affaccia alla mente: coesi attorno a cosa? Immagino dovrebbe trattarsi di un valore comune, di un ideale, qualcosa del genere; il primo che viene alla mente è la cittadinanza comune, l'appartenenza repubblicana e italiana, ma è un riflesso datato, visti gli alti lai che stanno accompagnando le celebrazioni odierne, insensibili al paradosso della richiesta. L'idea è di rinunciare alle spese inutili - leggi improduttive - a favore del soccorso di chi al momento ha bisogno; le spese inutili tuttavia lo sono solo da un punto di vista economicistico (anch'esso miope, perché qualcuno quei soldi li incassa per un servizio, ma lasciamo stare) perché dal punto di vista del valore che si invoca la celebrazione dell'unità nazionale e della forma repubblicana sono un ingrediente simbolico fondamentale per il mantenimento e rafforzamento proprio di quel legame in nome del quale andrebbero abolite.

Il problema è che se molti invocano, pochi capiscono. Si rendono cioè conto del fatto che la triade con cui ho aperto il post - coesione, solidarietà e fiducia - non ha nulla di razionale, né di meccanico, nonostante il bel tentativo di Durkheim di trasformare la solidarietà in un tratto funzionale della società. Rinvia invece all'immenso continente simbolico ed emozionale che la cultura occidentale sta rimuovendo attivamente dalla sua coscienza da secoli, convinta della sua inesistenza nonostante ci si scontri a ogni piè sospinto e ne esca con le ossa rotte. Una cultura di parole vuote può anche illudersi che non credere in qualcosa equivalga a farla scomparire; il reale però, con tutte le sue dimensioni, non soffre affatto di questi anatemi ed è lì, variegato e intatto, a segnalare problemi e incapacità di comprensione. E stoltezza.

Il problema principale è che, non capendo più di cosa si tratta, non abbiamo nessuna idea di cosa fare. Sembra piuttosto evidente che il semplice ripetere le parole, nello stile magico-incantatorio di cui parla Maffesoli, non basta; siamo bravissimi a distruggere ogni singola componente della triade, ma del tutto inetti a rimediare ai danni causati. Danni che nello specifico vanno avanti da decenni, dall'affermazione incontrastata dell'economia come unica chiave interpretativa della realtà. Buffo che una disciplina che non riesce a interpretare neanche i processi che dovrebbero costituirne l'oggetto possa pretendere di capire anche il resto e ancora più buffo che le si dia retta, ma siamo una cultura buffa, non c'è che dire. Quindi? Riconoscere e affermare che, per quanto riguarda i valori e i rituali sociali, l'economia non ha voce in capitolo sarebbe un buon inizio. Svegliarsi dall'illusione che sia il lavoro a fondare la nostra convivenza e la nostra repubblica sarebbe un altro, come anche smetterla di pensarci come macchine e ingranaggi. Blade Runner insegna che le macchine vorrebbero tanto essere come noi, nonostante sappiano bene come siamo... Sarebbe ora che lo volessimo anche noi.

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